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giovedì 3 luglio 2014

RECENSIONI "MONDIALI": "LA GRANDE PASSIONE", UN BRUTTO FILM PER UN DIMENTICABILE OMAGGIO AL CALCIO E ALLA FIFA


Giorno di pausa Mondiale, ieri, fra gli ottavi e i quarti di finale. Serata estiva non troppo calda. Ti piazzi davanti alla tivù e ti sintonizzi su Rai Uno per goderti, in mancanza di partite, "La grande passione", un film di recente uscita (regia di Frédéric Auburtin) dedicato alla storia della FIFA e quindi, in definitiva, al racconto dello sviluppo e dell'affermazione del calcio in ogni angolo del pianeta, dal 1904 in poi. Promettente, e poi il cast è di prim'ordine: Gérard Depardieu, Tim Roth, Sam Neill le punte di diamante. Ti aspetti un meritato tributo, un po' agiografico e un po' critico, ma comunque ben confezionato, al percorso ultracentenario dello sport che più di ogni altro ha saputo catalizzare oceaniche passioni, travalicando i confini agonistici per assumere un deciso rilievo sociale. Arrivi alla fine con una sola domanda a martellarti le meningi: perché il cinema continua a trattare così male il football? Perché svilire una tematica dalle infinite potenzialità narrative con un'opera così raffazzonata? 
CATTIVO CINEMA - Negli ultimi anni una svolta positiva c'era pur stata: il grande schermo aveva omaggiato l'universo del pallone con due piccoli gioielli, "Il miracolo di Berna" (intenso affresco attorno all'inatteso trionfo tedesco occidentale nella Coppa del Mondo '54, lo recensii qui) e "The game of their lives" (sull'incredibile vittoria della Nazionale statunitense ai danni dell'Inghilterra, nel 1950). Ma questa pellicola rimanda indietro l'orologio e rischia perfino di cancellare i passi avanti compiuti. "La grande passione" non rende un buon tributo all'epopea del calcio mondiale: è, semplicemente, un esempio di cattivo cinema, a partire dall'impostazione generale per finire a dettagli in apparenza secondari che, però, già dicono molto sulla qualità complessiva dell'operazione, sul rigore storiografico con cui è stata realizzata. Esempio: se la "credibilità fisica" degli attori ha una sua pur minima importanza, ecco, scegliere il colosso Depardieu per affidargli la parte del "padre" dei Mondiali, Jules Rimet, nella realtà uomo dalla corporatura tutt'altro che debordante (anzi), significa già partire col piede sbagliato. 
SCRITTURA DISOMOGENEA - Fosse solo quello il problema. Mi rendo conto che racchiudere in un film di due ore scarse una vicenda lunga oltre un secolo, e fittissima di episodi clamorosi e controversi, sia impresa improba per chiunque, ma una via di uscita c'è sempre, sol che si voglia trovarla: ci si può focalizzare su una determinata fase storica, e sarebbe stato ad esempio interessante raccontare solo le gesta dei pionieri, dalla fondazione della Federazione internazionale fino all'organizzazione del primo torneo iridato, ma queste sono scelte editorial - creative che spettano a chi il film lo scrive. Però, se si opta per una narrazione onnicomprensiva, è doveroso realizzarla in maniera meno grossolana, superficiale, disomogenea. Sì, "La grande passione" è una pellicola "squilibrata" nella costruzione: troppi passaggi storici epocali liquidati in poche battute o addirittura ignorati, e lungaggini inenarrabili, di converso, sulla FIFA dell'era moderna, con le sue lotte di potere e i suoi scandali veri o presunti. Più politica che calcio, il che è già una scelta programmatica discutibile, perché comporta l'abbattimento del possente effetto poetico che un prodotto del genere avrebbe invece nel suo Dna. 
MONDIALI IGNORATI - Due film diversi, slegati fra di loro, sembrano quasi convivere (a fatica) in quest'opera: la prima parte, come detto, potenzialmente potrebbe risultare la più fascinosa, evocativa, financo romanzesca, ma tutto scorre via come in un riassunto frettoloso e poco curato. I primi vent'anni di esistenza della Federazione di fatto cancellati, nemmeno un cenno alle vicende agonistiche della prima Coppa del Mondo (si passa dalla costruzione dello stadio Centenario di Montevideo direttamente alla premiazione dei campioni uruguaiani), saltate a pié pari le altre due edizioni degli anni Trenta, se non per un odioso riferimento alla kermesse del '34 ospitata dall'Italia: "L'avete organizzata per ragioni di propaganda, non certo per passione sportiva", dice Rimet rivolto al dirigente italiano Ottorino Barassi: e quando quest'ultimo afferma "comunque l'Italia l'ha vinta", il presidente FIFA gli ribatte: "No, ve ne siete appropriati"... Dialogo assolutamente improbabile, una venatura politico - ideologica che in un simile contesto assume i contorni di una forzatura, anche perché l'argomento (rapporto fra calcio e fascismo, organizzazione di quel torneo e svolgimento dello stesso) è talmente articolato e complesso (ne ho parlato qualche settimana fa sul mio blog, in due post, qui e qui) che, o lo si affronta seriamente, oppure si lascia perdere e si passa oltre. Del tutto ignorate anche le rassegne iridate dal 1954 al 1962 (gli anni della grande Ungheria, della nascita del mito Pelè e del dominio brasiliano, robetta di nessun valore, insomma). 
POCO PASSATO, TROPPO PRESENTE - La sensazione, col passare dei minuti, è che si corra a perdifiato per liquidare quanto prima la parte di storia "antica" (mentalità diffusa in tanti ambiti comunicativi: del passato frega poco, meglio dedicarsi ai tempi recenti e all'attualità, che intercettano un'audience maggiore), e che non si veda l'ora di affrontare le tematiche geopolitiche e finanziarie della FIFA contemporanea: la sfida fra l'antico presidente Stanley Rous e Joao Havelange, l'entrata in scena di Sepp Blatter, che diventa in breve il protagonista assoluto del film, il ruolo dell'Adidas, l'apertura ai Paesi del cosiddetto Terzo mondo calcistico, in primis l'Africa (dell'Asia, chissà perché, non viene fatto cenno alcuno), passaggio fondamentale nel lungo cammino della Federazione internazionale, passaggio che però "La grande passione" affronta omettendo un evento storico, il più decisivo in questo senso, ossia l'allargamento del Mondiale, in occasione di Spagna '82, da 16 a 24 squadre, modifica regolamentare adottata proprio per aumentare il numero di partecipanti fuori dal giro delle due culle del football, Europa e Sud America.
GLI INTRIGHI DELLA FIFA - Viene passata al setaccio la gestione Blatter con occhio indagatore, ma la sceneggiatura sembra muoversi maldestramente tra volontà accusatrice e benevola assoluzione, butta lì sospetti di manovre losche e giri strani (talmente gravi da poter portare il potente dirigente svizzero in galera, viene detto) ma non lascia intendere compiutamente quali siano queste malefatte di rilevanza penale, e anzi alla fine tutto si stempera mentre viene celebrata la rielezione al vertice FIFA dell'astuto Sepp, per poi chiudere in gloria con lo stesso Blatter che decreta, fra scene di entusiasmo, l'assegnazione del Mondiale 2010 al Sudafrica. Della serie: abbiamo iniziato raccontando con toni romantici i primi passi dello sviluppo mondiale del football, però per pochi minuti sennò poi il pubblico si annoia, abbiamo lungamente divagato puntando su non meglio precisati torbidi intrighi di palazzo e tentando di realizzare una pellicola di denuncia, dopodiché, oops, in dirittura d'arrivo ci siamo ricordati che in fondo l'intento del film era celebrativo (o no? Per la verità non si è capito) e allora era giusto finire con il primo Mondiale africano, emblema della totale universalità raggiunta dal pallone, ormai diffuso nei cinque continenti. Mah. 
IL CALCIO MERITA DI PIU' - Fosse stato il tema di un liceale, avrebbe seriamente messo a repentaglio la promozione del ragazzo. In questo brodo indistinto, un pizzico di retorica a buon mercato: le parentesi che, a mo' di intervallo fra un'era calcistica e l'altra, mostrano un gruppo di ragazzini alle prese con la classica partitella su un campetto sterrato, con l'unica bambina del plotone che resta insofferente in porta per tutto il film salvo poi abbandonare arbitrariamente i pali, impossessarsi del pallone e, manco fosse Aristoteles in "L'allenatore nel pallone", dribblare compagni e avversari fino a realizzare un gol che al confronto Maradona era un dilettante. Come a dire: ora il calcio è veramente di tutti perché coinvolge anche "l'altra metà del cielo". Vero (fino a un certo punto: purtroppo il "pallone in rosa" deve ancora decollare in molti Paesi, si pensi a come è bistrattato da noi), peccato che in tutto il film alla questione venga dedicata solo una mezza battuta del solito Blatter: "Per lo sviluppo del football, ora dobbiamo dedicarci anche alle donne": stop, finita lì. E peccato che il racconto di questa raggiunta universalità sia stato proposto puntando l'obiettivo più su politica e affarismo legati al calcio (con tutti i risvolti negativi del caso) che sulla faccia pulita di questo sport, sui campioni, le grandi squadre e l'entusiasmo popolare. Tornando alla domanda di cui sopra: l'intento dell'opera era celebrativo o di denuncia? La sensazione è che si dovesse fare una scelta di campo, una sola cosa fatta bene, invece se ne son fatte due male, cucinando un minestrone di difficile digeribilità: superficialità storiografica, imprecisioni, discorsi iniziati e mai portati a termine, spirito critico che rimane a metà del guado. La fascinosa leggenda del calcio, ma anche i suoi lati oscuri, meriterebbero di più e di meglio. 

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